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QUANDO ROMA ANCORA NON USAVA LA MONETA......
Accanto all’aes rude, troviamo più tardi anche un altro mezzo di scambio, il rame fuso in pezzi fusi di bronzo, quadrangolari, con rilievi figurati su una o sulle due facce, detto perciò aes signatum. Il termine aes signatum significa rame con signum, cioè con un’impronta. Veniva usato intero o in pezzi, e se ne conoscono tre gruppi: il primo comprende pezzi più rozzi e pesanti (fino a 3,453 Kg), caratterizzati da una figurazione lineare, chiamata “ramo secco”; il secondo comprende pezzi meno rozzi, le cui figurazioni sono la “spina di pesce”, la stella, il crescente lunare, il delfino; il terzo gruppo comprende pezzi di cui alcuni sono sicuramente di origine romana, quelli con la scritta ROMANOM o ROM. Se interi, il loro peso varia tra i 1,142 e 1,830 Kg; portano su ambo le facce figure di animali, quali l’aquila, il Pegaso, il maiale, il toro, e altre raffigurazioni come la spada, il caduceo, lo scudo, il tripode, l’ancora, il tridente. Di questi pezzi, databili forse tra il IV ed il II secolo a.C., cioè in un momento in cui la moneta vera e propria era già in uso, non si conosce l’esatta funzione.
A differenza dell’uso greco, i pratici romani aggiunsero agli emblemi anche alcuni contrassegni, che ne indicavano il valore, impiegando tratti verticali per indicare le unità in libbre e globuli per le unità in once. A causa delle loro dimensioni i pezzi venivano fusi e non battuti. L’aes signatum era già noto alla metà del VI secolo a.C. poiché un frammento con un ramo secco è stato trovato a Bitalemi, presso Gela, nel tempio di Demetra e Core, in un pozzetto votivo, datato tra il 560 e il 540 a.C. Il frammento doveva essere giunto in Sicilia probabilmente attraverso il commercio.
Dove fossero le officine di produzione di questi pani è ancora oggetto di discussione da parte degli studiosi, ma poiché finora il maggior numero di ritrovamenti è avvenuto tra Bologna e Reggio, è probabile che le officine che producevano questi pani fossero nella bassa pianura padana o in Etruria e che da questi luoghi si diffondessero nel Lazio. Certo è che l’uso del rame rozzo e del rame con impronta durò a lungo, poiché ne sono stati rinvenuti numerosi pezzi anche insieme alle monete. Dobbiamo ricordare anche un altro mezzo di misurazione del valore, cioè il “bestiame-moneta”, che è attestato nella lingua latina non solamente da alcuni termini derivati dalla parola pecus (= bestiame), quali pecunia (=denaro), peculium (= patrimonio), peculatus (=furto di denaro pubblico), che troviamo ancora oggi, ma anche che ci sono stati tramandati dagli autori antichi. Festo ci informa, ad esempio, che la multa per reati di poco conto era calcolata a due pecore, per i più gravi poteva arrivare fino a trenta buoi. Risale al 454 a.C. la legge Aternia-Tarpeia, che deve il suo nome ai consoli Aulo Aternio Varo e Spurio Tarpeio Montano, e al 452 quella Menenia-Sestia, dai consoli Tito Menenio Lanato e Publio Sestio Capitolino, che stabilivano che le pene potevano essere pagate anche in rame e fissavano il valore di una pecora in dieci assi e di un bue in cento assi.
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